Riassunto.
Il presente lavoro mette in luce alcuni aspetti particolarmente significativi della relazione terapeutica con una paziente dodicenne portatrice di una storia personale costellata di abbandoni e di ripetuti traumi cumulativi che lasciano addosso una fame di relazione, mai soddisfatta. La tragica esperienza dell’abbandono precoce resta come contenuto fantasmatico difficilmente elaborabile. Il lavoro terapeutico diviene così occasione per tentare di integrare frammenti di un mosaico scomposto; spazio di pensabilità di sofferenze silenziose e inesprimibili; speranza per l’avvio di un interno processo trasformativo.
Abstract.
This work highlights some particularly significant aspects of the therapeutic relationship with a twelve-year-old patient who has a personal history studded with abandonment and repeated cumulative traumas that leave behind a hunger for relationship, never satisfied. The tragic experience of early abandonment remains as a phantasmatic content that is difficult to process. Therapeutic work becomes an opportunity to try to integrate fragments of a broken mosaic; space of thinkability of silent and inexpressible sufferings; hope for the initiation of an internal transformative process.
Autrice: Stefania Tambone*
- * Psicologa, Psicoterapeuta Psicoanalitica dell’Età Evolutiva (Winnicott, ASNE-SIPsIA)
- Socio Associato SIPsIA
- Socio Associato Società Italiana di Psicoanalisi della Coppia e della Famiglia PCF e SIEFPP
- Socio Ordinario Associazione Thalassa
- Docente a contratto di Psicologia Dinamica presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro
- stefaniatambone@libero.it
Introduzione.
Veniamo al mondo e ci troviamo collocati in una rete di relazioni che costituiscono la trama della nostra prima storia, da cui si avvierà un ininterrotto processo di storicizzazione. Così possiamo dire che quello che succederà dopo, comincia già prima.
Questa rete di relazioni mentali primitive promuove la costruzione dinamica della mente del nuovo arrivato ed essa comprende non solo la vita reale della famiglia, ma anche le fantasie, il mito che ogni famiglia crea e che lo anticipa. In tale processo strutturante il bambino ha bisogno di un interlocutore capace di costruire insieme a lui l’intreccio di significati che diano coesione e senso alla sua storia, che sia testimone di un prima, un adesso e un poi, un dentro e un fuori, permettendo di collocare e riconoscere se stessi all’interno di questa continuità.
L’adozione è un modo particolare di creazione di questi legami affettivi-mentali, a volte particolarmente difficile da compiersi, per la gradualità e l’imprevedibilità della germinazione di un rapporto di filiazione che tenga in conto, e non neghi, quel “fondo di memoria” che tesse ogni biografia e che veicola l’identità personale e che l’ambiente adottivo avrà il compito di integrare.
Il termine “identità” in generale è considerato un concetto marginale della psicoanalisi classica, in particolare in Freud che, nelle sue opere, sembra essere maggiormente concentrato sull’analisi dei complessi processi di identificazione.
Il discorso sull’identità verrà approfondito, tra gli psicoanalisti, da Erik Erikson che, prendendo spunto proprio dal discorso di Freud, ne mette in evidenza la caratteristica “etnica”, cioè l’attribuzione sociale di appartenenza al senso dell’identità, in cui superando il concetto di adattamento, pone in risalto la dimensione storico-culturale e il carattere comunitario dell’esistenza umana, rispetto ai processi di formazione dell’Io.
Più incisivo è il contributo di Leòn e Rebeca Grinberg che, all’interno dell’orientamento psicoanalitico delle relazioni oggettuali, pongono l’attenzione sul Sé e sulla percezione di continuità dell’esistenza in relazione ai fattori di cambiamento. Questo processo ha a che fare, a loro avviso, con quello che definiscono un sentimento d’identità, che è alla base di uno sviluppo sano della persona e che, al contrario, quando è deficitario o interrotto, espone a patologie confusive dell’identità. Il sentimento d’identità si fonderebbe sulla integrazione di spazio, tempo e dimensione sociale. Più nello specifico, questo avviene attraverso l’integrazione spaziale che consente la differenziazione tra Sé e non Sé, mantiene la coesione tra le parti del Sé e la relazione tra il Sé e l’Oggetto. L’integrazione temporale avviene attraverso dinamiche intrapsichiche che permettono il sentimento di continuità tra diverse rappresentazioni del Sé nel tempo. Infine, l’integrazione sociale conferisce il senso di appartenenza attraverso i rapporti del Sé con gli oggetti esterni e interni in termini di identificazioni introiettive e proiettive.
Quando questi tre vincoli di integrazione sono soddisfatti, il sentimento di unità è preservata. Una rottura di questi vincoli causa, rispettivamente, stati mentali di disorganizzazione e angosce persecutorie primitive; angosce confusionali con brusche interferenze sulla continuità del Sé tra passato e presente; angosce depressive di non appartenenza.
Il bambino adottato attraversa l’esperienza della rottura e l’integrazione spaziale, temporale e sociale ne viene profondamente turbata. Può accadere allora che il soggetto viva un collasso identitario, immobilizzato in un’impasse interminabile, un buco nero fitto e persecutorio.
Il presente lavoro tratta della difficile esperienza di psicoterapia psicoanalitica con una dodicenne in attesa di transitare verso l’adozione. Scrivere di questo caso ha significato esprimere “la penombra che abbiamo attraversato”[1] io e la mia paziente e, se il transfert è un’esperienza di cecità che sottende identificazioni inconsce e quindi sconosciute, allora non è possibile immaginare di entrare nel groviglio del sintomo, della storia di quel paziente, senza attraversare noi stessi i buchi neri, i nodi cruciali … la penombra.
Non posso che iniziare dalla fine, dal punto in cui tutto ha improvvisamente assunto un nuovo significato, profondo e doloroso. Senza preavviso, la situazione precipita e questo comporta la brusca interruzione della psicoterapia, dovuta a fattori susseguitisi “sopra le nostre teste” e nei confronti dei quali sia io, come terapeuta, che Sandra, così chiamerò la mia paziente, ci troviamo impotenti a subirne gli effetti.
Sandra è una ragazzina di dodici anni che porta dentro di sé una storia pregna di abbandoni, perdite, lutti, verso i quali non c’è modo di difendersi, non ci sono preavvisi e non c’è elaborazione. Meglio di mille possibili parole, la metafora del terremoto, che Sandra userà spesso come gioco nella terapia, ben rappresenta questi vissuti interni: spaventoso, imprevedibile, esso ti piomba addosso all’improvviso e può essere devastante … “come certe notizie, come certe emozioni”.
E questo mondo interno irrompe nella terapia con grande impeto, caratterizzandola costantemente come spazio in cui dover dosare gli investimenti perché è l’enormità del buco di deprivazione iniziale a pretenderlo; la costruzione della relazione analitica è inevitabilmente lenta, graduale, oscillante. L’incertezza e l’impotenza che controtransferalmente Sandra mette dentro di me e con le quali devo continuamente combattere, danno la misura del suo stesso funzionamento intermittente: più Sandra si avvicina a vissuti terrorifici più sembra allontanarsene. “L’esperienza analitica ci offre nel tempo una serie di frammenti di conoscenza, come i pezzetti di un mosaico” ci suggerisce Freud. [2] La continua oscillazione tra avvicinamento e allontanamento, smarrimento e colpa, passività e aggressività, ritiro depressivo e maniacalità ha chiarito pian piano il senso che la psicoterapia avrebbe dovuto rappresentare per Sandra: creare uno spazio di pensabilità per quelle sofferenze cementificate dentro di sé; offrire un senso di continuità alle fantasie provenienti da epoche diverse della propria vita fungendo, la terapeuta, da “cantastorie”[3] di una nuova narrazione unitaria del Sé recuperando qua e là brandelli di esperienze strappate, lacerate e in attesa di essere ricucite; costruire una rete di contenimento per preparare me stessa e Sandra a parare i colpi quando aree interne devastate e devastanti sarebbero esplose violentemente.
Mi è sempre cara la metafora del viaggio, che poeticamente l’Algini assimila al percorso terapeutico, e come un “viaggio speciale”[4] senza una meta ben precisa, forse non pianificata affatto, io e Sandra ci siamo avventurate senza sapere bene dove quel viaggio ci avrebbe condotte, in quali luoghi sconosciuti e arcani avremmo sostato, in quali vicoli cechi e spaventosi o distese sterminate e travolgenti ci saremmo imbattute. Alcune volte, ci siamo perse del tutto, per ritrovarci di lì a poco impaurite ma fiduciose. Fiduciose di poter sopravvivere alla momentanea “perdita di significato” che abbiamo dovuto vivere e attraversare. Scrive Bion “Poter attraversare la catastrofe interna connessa al cambiamento, indagando, al di là delle apparenti cesure, l’emergere di legami, connessioni da uno stato all’altro … non la sanità, non l’insanità, ma la cesura, il legame, la sinapsi … la possibilità di trascendere la cesura, di dissolverla, per poter accedere all’esperienza della continuità”[5] .
Di questo travagliato, ma straordinario viaggio parlerò, illustrandone solo in parte i sentieri e le vicissitudini, sorvolando su tanti altri passaggi che meriterebbero ulteriori approfondimenti. Frammenti dunque, che ho cercato di ricucire con la paziente allora, e nel mio scritto poi.
[2]Ritroviamo tale affermazione nella Lettera 112 che Freud indirizza a Fliess.
[4]M.L. Algini, 2007, Il viaggio con i bambini nella psicoterapia, Borla, Roma.
I primi incontri con Sandra: dalla tragica rassegnazione alla speranza di potersi fidare di nuovo.
Sandra arriva da me portata dalla responsabile della Comunità Educativa presso la quale la ragazza è inserita da un paio di mesi. I dati anamnestici sono scarsi e molto imprecisi … sappiamo che all’età di tre anni e mezzo viene allontanata dalla madre a causa di un grave fallimento dell’ambiente primario; madre che molto presto perderà la potestà genitoriale. Sandra viene affidata ad una prima Comunità Educativa e qui sembra rimanere per circa un anno. Passa poi in una famiglia affidataria e presso questa famiglia rimane per sei anni. La situazione degenera quando Sandra si affaccia alla preadolescenza e viene così riconsegnata al Tribunale; presto, forse troppo presto, si provvede ad inserire la bambina presso una seconda famiglia, nella quale resterà per soli 6 mesi. Sandra approda così all’attuale Comunità Educativa. La referente mi chiede una consultazione al fine di poter aiutare Sandra ad elaborare questa continua esperienza di abbandono nonché a lavorare sull’area della sessualità della ragazza che si avvia all’adolescenza.
Incontro Sandra per la consultazione; ha appena compiuto dodici anni. Mostra da subito di avere un grande bisogno di parlare, di portare il suo mondo interno e manifesta la speranza di poter trovare un luogo e uno spazio di ascolto. Fin dalle prime battute, infatti, Sandra porterà in seduta grandi borse e grandi raccoglitori in cui sembra aver gelosamente custodito, nel tempo, la sua storia: i primi disegni, quelli più recenti e più elaborati, gli inviti ai compleanni propri e delle amiche, le letterine che si scambiava con le vecchie compagne di scuola, i libri di favole … insomma c’è la sua vita lì dentro, le sue emozioni, le gioie e i dolori, gli incontri e gli abbandoni … ogni foglio è una scoperta, una narrazione, ora di sorrisi ora di lacrime.
Tuttavia, i timori e le paure a lungo accumulate a seguito delle ripetute delusioni, la rendono nel contempo resistente e sfiduciata nell’incontro con l’altro. Più volte, a seguito di brevi accenni alla sua storia precedente, Sandra ripeterà con amara rassegnazione: “Io non soffro…tanto lo so che è così! Tanto lo sapevo che andava a finire così!”. Sandra si difende con una anestesia affettiva per sopravvivere alla sofferenza, ma sappiamo che un bambino danneggiato ripropone la dinamica traumatica in quella logica tipica del ripetere il trauma nell’incessante tentativo di uscirne; spesso però Sandra se ne ritrova pericolosamente imbrigliata e con il trauma di allora tornano anche le difese di allora: la difesa maniacale e il ritiro depressivo.
La psicoterapia allora si propone come uno spazio terzo, un tempo di pensabilità, che offre la possibilità di un processo trasformativo.
L’avvio della psicoterapia e il rischio insidioso del collasso emotivo sul trauma.
Ciò che caratterizza le prime sedute con Sandra è l’emersione di un assetto psichico interno contrassegnato da un duplice aspetto: una dimensione adultomorfa in contrapposizione stridente con una dimensione più infantile. Ad un estremo emerge, infatti, la tendenza alla seduzione, alla compiacenza, come sfruttamento dell’istinto per la sopravvivenza; Sandra è una bambina fortemente deprivata che ha dovuto imparare a fare affidamento sulle proprie eccitazioni autoerotiche per sopravvivere. È una bambina che si muove sul registro del “fare” e “dell’agire” perché estremamente spaventata. Ed è allora che emerge tutta la difficoltà di Sandra nel gestire da sola i propri vissuti interni fatti di rabbia, di rancore, di colpa, ma anche il bisogno di accudimento, di calore e di contatto. Bisogni primari arcaici che è importante non vengano scambiati e confusi con richieste pubertarie. Sappiamo quanto la sessualità infantile si poggi sulle cure materne e, lì dove esse sono assenti o carenti, la sessualità resta qualcosa di sovrapposto, appiccicato, slegato dal resto.
Affianco a questo, c’è un aspetto marcatamente infantile, con oggetti altrettanto infantili e con una richiesta di affetto infantilizzata. Il suo bisogno fisico di stare addosso, in contatto corporeo con l’altro, la sua seduttività, testimoniano un affetto e non un’eccitazione, ma l’adulto coglie per prima l’eccitazione, ne rimane atterrito e risponde respingendo una tale richiesta. Questo forse il drammatico fallimento delle precedenti famiglie affidatarie: aver confuso i bisogni di accudimento e accoglienza con le richieste sessualizzate pubertarie.
Sandra non sa modulare la carica e la richiesta affettiva neanche dentro di sé; c’è un bisogno fisico eccitante di stare adesivamente attaccato pelle a pelle con l’altro. L’affettività non si è differenziata dalla corporeità. Quindi, potremmo dire, che Sandra vive, ripetutamente, un tradimento affettivo: è l’adulto che confonde il “linguaggio della tenerezza” con “il linguaggio della passione”[6] . Sandra porta un affetto, non un’eccitazione, ma purtroppo è questo che viene frainteso dall’adulto. Scrive l’Algini “Il sessuale si presenta sempre all’insegna della ripetizione, proprio perché il soddisfacimento è dell’ordine del desiderio, e il desiderio è legato ad uno scenario fantasmatico teso a ritrovare una prima esperienza vissuta. Il problema è che spesso il soggetto è letteralmente intrappolato dentro la pura ripetizione di quello scenario, non c’è spazio per trasformazioni, per l’emergere di curiosità, di esplorazioni e relazioni affettive”[7] . C’è un marasma affettivo da cui l’unica cosa che viene a galla è l’eccitazione sconosciuta, enigmatica, incandescente. Il rischio è il collasso della rappresentazione simbolica.
Compito e funzione della terapia, dunque, diventa accettare l’affetto, riconoscerlo come tale e modularlo. Sarà importante declinare, interpretativamente, tale carica affettiva differenziandola dall’eccitazione. Un lavoro costante con Sandra è stato infatti l’esplicitare: “Sandra per sentirsi amata, per sentire l’affetto, ha bisogno del contatto fisico”. Solo attraverso questo processo di differenziazione affettività-corporeità, tenerezza-eccitazione, Sandra ha iniziato ad imparare a modulare la propria affettività e a godere dell’affetto ricevuto.
Sandra è una ragazzina che seduce e affascina; il transfert seduttivo, sempre in agguato, più volte è stato sul punto di provocare il ritorno dell’esperienza traumatica, nel momento in cui Sandra attivava dentro di me quei vissuti che portano a respingerla e ad abbandonarla, in un movimento difensivo inconscio di espulsione. Nel transfert ci sarà quasi costantemente il rischio di un collasso emotivo sul trauma, reiterando una coazione a ripetere inconscia e maligna che Sandra sembra, suo malgrado, innescare nell’ambiente circostante, sollevando continui interrogativi sul significato profondo del meccanismo della ripetizione del trauma e sulla sfumata demarcazione tra il dentro e il fuori, tra dinamica intrapsichica e dinamica dell’ambiente.
Il processo analitico si è costantemente posto un obiettivo ben preciso: promuovere ed accompagnare il salto dalla “ripetizione traumatica” alla “ripetizione trasformativa”, permettendo di tornare indietro per provare a riattivare quelle forze vitali che la bambina non aveva potuto utilizzare quando aveva vissuto l’esperienza traumatica, e che oggi, nella terapia, après-coup, possono tornare a nuova vita, come una circolazione che riprende a pulsare, come una vena che lentamente si riapre.
“Se fossero persone io saprei come tenerle in vita”
Al rientro dalla pausa estiva, Sandra mi porta in dono una piantina con uno splendido fiore viola cangiante. Questa pianta diverrà l’emblema del nostro viaggio terapeutico.
S. specifica: “Questa è per te …dopo devo darti le istruzioni!”. Colgo immediatamente il nesso tra la pianta e S. stessa: S. mi porta/affida se stessa per essere curata, annaffiata, non dimenticata. Ricordo che ho pensato: “Mamma mia che responsabilità … spero di non farla seccare”. In realtà S. non perde tempo e mi dà subito queste istruzioni: va annaffiata una volta a settimana e la sera, ogni sera, devi togliere i fiori secchi perché ogni fiore che togli ne nasce uno nuovo…mi raccomando!”.
Sandra mi regala una pianta che genera ogni giorno un fiore nuovo e questo evoca tematiche legate alla corporeità, alla femminilità, alla generatività; tuttavia quello che vorrei qui sottolineare è il vissuto che ho sperimento dentro di me a seguito di quel dono: preoccupazione, dubbio, inadeguatezza, e un interrogativo preciso: “riuscirò a non farla morire?”.
S. cerca con lo sguardo l’opera realizzata la volta precedente e con grande rammarico scopre che la “ragazza fashion” costruita con la plastilina, seccandosi, si è rotta e distaccata in più punti. La prende in mano delicatamente, la osserva in silenzio e pian piano separa le parti ormai venute via: i capelli, i pantaloni, la cintura, fino ad arrivare alla testa. Poi mi guarda e dice sottovoce: “Non c’è più niente da fare: è morta”. Mi colpisce questa frase e penso, per un attimo, che forse S. possa conoscere bene quella terrificante sensazione: se vai in pezzi, muori; non c’è più speranza, non c’è più niente da fare; è indispensabile tenersi uniti, integrati, a tutti i costi. Dico solo: “Ora che è morta, cosa facciamo?”; e lei subito afferma che dobbiamo farle il funerale e la tomba. Poi sorride e, spostando l’attenzione verso il cagnolino di plastilina anch’esso realizzato la scorsa volta e che invece è “sopravvissuto” esclama: “E ora «cane prendi-l’osso» sei restato solo!”. Le chiedo “com’è quando uno resta solo?” e lei semplicemente “E’ brutto!”. Faccio un tentativo di spingermi cautamente avanti, ma S. mi blocca e vira sul gioco.
Prende avvio una particolare fase della terapia in cui i due temi predominanti e ricorrenti sembrano angosciosamente riempire le nostre sedute: la morte e la pazzia. I personaggi della famiglia che Sandra utilizza nel suo gioco della casa e il suo peluche preferito, iniziano a cadere per terra morti o svenuti. Sandra ripete nei suoi giochi “E’ morto, dobbiamo fargli il funerale” oppure “Non è proprio morto, è svenuto”. O ancora il personaggio della mamma, improvvisamente con il corpo, fatto roteare all’impazzata da Sandra, distrugge tutti gli arredi della casa e, dando Sandra stessa voce ai figli, grida: “Aiuto, aiuto, mamma è pazza!”. Pian piano emerge che Sandra confonde la pazzia con la sofferenza; “Io sono pazza” confesserà in una seduta particolarmente commovente e “i pazzi sono gli sfortunati infelici come me”.
S. trascinandosi sul tappeto, esclama: “la vecchietta…voglio sentire la vecchietta!” ed estrae dal contenitore dei giochi la barbie dal medaglione che emette la voce. Ormai, come S. ha scoperto nelle sedute precedenti, la voce è diventata tremula e stonata (a causa delle pile che si stanno scaricando), ma è interessante che per S. l’unica spiegazione plausibile è che Aurora “è diventata vecchietta e ora ….vedi è morta…è morta…ha perso la voce”. Di nuovo questo tema: la morte. Questa volta però sono turbata, perché S. si è fatta molto seria. Dico: “Ci sono tante cose qui che stanno morendo” e subito S. “E come facciamo…Stefania come facciamo a tenerle in vita”. Ripeto “Come facciamo…come possiamo fare”, cercando non tanto una risposta da dare a S., quanto piuttosto a me stessa. S. ribatte: “Io non lo so! – poi aggiunge – Se fossero persone sarebbe diverso, sarebbe più semplice: basterebbe dargli da mangiare” e io continuando sulla scia della sua pregnante riflessione “dargli calore, curarle…”; S. annuisce con la testa e pronuncia ripetuti “Si”. Nella mia mente non fa che risuonare la specificazione “se fossero persone” come a dire “se fossero persone io saprei cosa fare, io saprei di cosa si ha bisogno quando ci si sente morire”; resto in silenzio. Anche S. rimane in silenzio, ma succede qualcosa di molto particolare: S. passa da seduta di fronte a me com’era, ad accovacciata sulle mie ginocchia, in un attimo. Poggia la testa sulle mie gambe e incrocia le braccia sotto la guancia. Resta così per un tempo per me imprecisato. Avverto il profondo bisogno di S. in questo momento di sentire quel calore e quella cura su di sé, e sento crescere la tentazione di accarezzarle i capelli e di stringerla e devo operare uno sforzo per non farlo fisicamente, ma con le parole onde evitare di incorrere nel rischio di un abbarbicamento su una semplice relazione affettiva. Penso a S. neonata, penso alla madre di S., mi domando se quell’abbraccio S. l’abbia mai provato davvero, fisicamente, se abbia sentito davvero quel calore. Dico semplicemente: “Credo di sapere di cosa ci sarebbe bisogno adesso, di un forte abbraccio, di tanto calore, che ci aiuti a “tenerci in vita”… come i bambini piccoli che impauriti hanno solo bisogno di aggrapparsi alla mamma”. Sento le braccia di S. avvolgermi più forte le gambe.
Arriva la festa di Halloween e Sandra mi coinvolge in un progetto: dobbiamo realizzare degli oggettini (zucca, fantasma, streghe = amuleti scaccia fantasmi) con dei fogli di carta, colorarli, ritagliarli e allinearli su uno spago, per poi appenderli alla porta.
“La notte di Halloween queste cose devono essere appese per forza in casa, altrimenti vengono i morti e ti portano via, viene Satana e ti porta via”. Le chiedo se sappia dove si viene portati e S. mi guarda negli occhi e fattasi seria dice: “Dai morti, no!”… Ho la sensazione che S. sia estremamente impaurita da questi discorsi e da queste fantasie, ma che nel contempo se ne senta attratta, anzi quasi avviluppata. S. adesso cerca un posto dove appendere quanto realizzato, si guarda intorno per la stanza, poi decide di metterlo dietro la porta con lo scotch. Mentre sistemiamo lo spago, S. spegne la luce. La stanza non è totalmente buia, ma S. è attraversata da un brivido di paura, fisicamente visibile. Mi chiede subito di riaccendere la luce. Vivo con lei questa inquietudine e con lei un senso di liberazione quando torna la luce. Verbalizzo che forse tutti questi mostri, streghe, fantasmi, non fanno che farci riflettere su tutte le paure nascoste che abbiamo dentro di noi. Non finisco nemmeno la frase che S. mi abbraccia forte. Poi si mette nell’angolo della stanza e si lascia scivolare per terra, accasciandosi al suolo. Realizzo quanto S. stia esprimendo, in maniera così plastica, il suo cedimento sotto l’immane peso delle paure, delle angosce che porta dentro di sé. Azzardo un “forse S. è svenuta perché ha sentito dentro qualcosa che l’ha tanto spaventata”; con il viso coperto dai capelli e la bocca chiusa tra le mani, S. dice il suo timido “si”. Si alza e si catapulta su di me, abbracciandomi. Dico che S. sente che l’unico modo per non sentire la paura dentro di sé è mantenere uno stretto contatto con l’altro…
Traspare il terrore disarmante del ritorno del rimosso; Sandra sa che i suoi genitori sono vivi da qualche parte, ma sono morti dentro di sé. Anzi, Sandra ha ben tre coppie di genitori vivi nella realtà, ma morti nel suo mondo fantasmatico. Il punto è: chi li ha fatti morire? Inconsciamente Sandra pensa sia stata colpa sua, sono morti perché lei, con la sua avidità affettiva, con la sua pulsione distruttiva, li ha uccisi. Il pensiero onnipotente le fa credere che avrebbe potuto impedire, evitare che succedesse tutto ciò che le è capitato nella vita. Questi vissuti comportano per Sandra l’urgenza di verificare che l’altro ci sia, attraverso il contatto corporeo, perché sperimenta continuamente la paura che la propria distruttività possa danneggiare/uccidere l’altro.
Quali oggetti interni hanno formato la trama del tessuto psichico di Sandra? Come avrà vissuto Sandra le antiche separazioni? Cosa sarà successo dentro di lei, quali emozioni, quali vissuti si saranno incistati nella sua memoria? E quale risonanza interna può avere, ancora oggi, l’esperienza della separazione se non quella del perdersi, dello svanire, del morire? Come mantenere il legame se l’oggetto sparisce prematuramente? Come vivere la separatezza se non come smarrimento funesto, come un buco nero che inghiotte l’altro e inghiotte anche se stesso? Fondamentale è stato, nella psicoterapia, offrire la mia funzione di “compagno vivo”[8] che concede la propria mente adulta e presta le proprie parole per avviare una simbolizzazione e per tentare di immaginare insieme un’altra storia.
La non-memoria del passato: “Non mi ricordo più com’è la casa!”
Le origini di ogni individuo sono uno “stato mentale” grazie al quale ci si riconosce come appartenente ad un contesto ambientale e di relazioni e nel quale si deve includere il passato, ossia un periodo di vita non conosciuto e non ricordato, cioè il mondo delle primitive esperienze sensoriali che non hanno mai attraversato la memoria cosciente, ma che restano inscritte in un deposito inconscio che molti autori hanno diversamente definito.[9] La Schlesinger parla di “scrigno della memoria” per indicare la “rete delle relazioni mentali primitive” di cui la madre, i genitori, la famiglia sono testimoni e che viene condivisa con il bambino, costruendo pian piano la sua prima storia.
La psicoterapia con Sandra mi ha messo dolorosamente in contatto con la mancanza di tutto questo: a Sandra manca il ricordo personale di un’immagine interna dei genitori naturali e manca un’immagine di sé che possa essere trasmessa dai ricordi di chi le sta intorno; non c’è nessuno che possa ricordare per lei e con lei. Non può esserci la trasmissione della “storia familiare”, della “lingua degli antenati”. Questo “buco di memoria” non può essere colmato con alcuna rivelazione della realtà storica o dei fatti concreti (tra l’altro minimi e comunque estremamente traumatici). In questi casi, si deve fare i conti con la terribile sofferenza del «non sapere», «non ricordare», «non conoscere», «da dove si viene», «da chi si viene»… si deve fare i conti, afferma sempre la Schlesinger “con la mancanza della continuità e con la capacità di tollerarla senza perdersi nel nulla”.[10] Eppure la mancanza, il buco nero, il vuoto non è precisamente un “nulla”, una “assenza” piuttosto una ingombrante “presenza”. Chiarisce Stella “nell’esperienza psichica il vuoto e l’assenza assumono l’identità di una “presenza negativa” … il “negativo” corrisponde non già al non-esserci dell’oggetto (madre e ambiente), ma al suo inaspettato “mancare” e ad un fallimento delle funzioni di holding e di rêverie”.[11]
Il trauma dell’abbandono originario fa da sfondo costante ed imprescindibile nella vita di Sandra; il rifiuto da parte dei genitori naturali comporta per sempre il timore di ripetere quell’esperienza di espulsione. L’abbandono è sentito, inconsciamente, come prova del rifiuto subito perché persona non degna d’amore. E come se non bastasse, per Sandra, è successo che la realtà ha inverato ripetutamente queste sue angosce, perpetuando il trauma dell’abbandono originario con ulteriori traumi cumulativi. Ricordo quando, mentre per la prima volta mi parlava delle sue due esperienze di inserimento in famiglia, mi disse con amara lucidità: “Sai, io prima vivevo a M…vivevo con una famiglia…anzi ho avuto due famiglie, ma poi (fa una pausa) mi hanno buttato fuori”.
[8]A. Alvarez, 1993, Il compagno vivo, Astrolabio, Roma.
Freud, per spiegare il trauma, usa la metafora della ferita: una ferita non guarisce mai, può cicatrizzarsi, ma resta indelebile come un marchio sulla cute. Perché la ferita possa rimarginarsi occorre accompagnare, ricongiungere i due lembi epidermici per permettere la cicatrizzazione. Questa operazione è sicuramente dolorosa, ma necessaria. Lavorare sul trauma significa lavorare su tutto l’apparato psichico del paziente nel suo insieme; è come se, pensando al trauma come ad un buco, non potessimo pensare di lavorare sul buco, ma sui suoi contorni, sulla possibilità di ricucirne i lembi. Significa quindi lavorare lentamente al ripristino di tutto un apparato difensivo e protettivo.
Forse è anche in questa accezione che possiamo evocare il concetto freudiano di “Analisi terminabile interminabile”.
Quello che la terapia può e deve permettere è un lento contatto con il mondo emozionale delle proprie origini, attutendo lo scollamento tra frammenti di esperienze confuse e gli stati emotivi interni ad essi connessi. È così che Sandra spontaneamente, ad un certo punto del percorso terapeutico, inventa un gioco tutto nuovo: creare insieme un libro di storie, non storie qualunque, ma “Le mie storie” che pian piano raccoglieremo in tre volumi e di cui Sandra è orgogliosissima. Il senso, che da subito abbiamo conferito a questo momento fondamentale della creatività di Sandra, risiede proprio nel proposito, maturato dentro di sé con estrema lentezza, di poter iniziare a narrare qualcosa di sé, di poter vivere una “regressione benigna” verso il passato, di poter recuperare brandelli di senso sparsi qua e là, di permettere a delle emozioni di rinvenire da luoghi nascosti e misteriosi, per poter finalmente attribuire loro un senso di continuità e fare un’esperienza integrativa delle fantasie che appartengono ad epoche diverse della propria storia passata.
Lungo questo difficile cammino di integrazione di piccoli frammenti di emozioni e sensazioni, Sandra arriva al grande tema della casa. È suggestivo seguire con lei l’andamento lento ed esitante, intrigato ed impaurito con il quale si avvicina ad esso. E sceglie di farlo attraverso il disegno, inteso quale possibilità di offrire una prima figurabilità psichica capace di colmare il vuoto di rappresentazioni che appartengono ad un’epoca preverbale e presimbolica dello sviluppo.
“Dobbiamo disegnare tutto il dentro della casa … ma non mi ricordo più com’è la casa!”. Capisco bene che la comunicazione conscia di S. sia “non ricordo più come è fatta dentro la casa-giocattolo con la quale abbiamo giocato in alcune nostre sedute”, tuttavia appare prevalente in questo momento la sua comunicazione inconscia “non ricordo più come è fatta dentro la mia casa”. Cosa può voler dire una tale comunicazione? Si fa riferimento alla casa materna, alla casa della propria nascita e infanzia, e forse anche alle due case su cui S. ha per due volte riversato tutte le proprie aspettative, e ancora la casa intesa come corpo, e quindi il dubbio potrebbe essere come è stato il suo corpo infantile e com’è dentro il mio corpo attuale che cambia? Dico che possiamo provare insieme, pian piano, a vedere cosa c’è dentro una casa. S. però preferisce seguire un modello: prende infatti la casa-giocattolo, la apre e, dopo aver sistemato gli arridi interni, inizia a riprodurre il tutto sul foglio. Il tempo passa lentamente; S. è estremamente silenziosa e, per la prima volta durante una seduta con lei., mi viene sonno. Noto questo mio stato e lo percepisco con grande disagio. Istintivamente prendo i quattro personaggi della famiglia che S. aveva lasciato da parte in un angolo, e li dispongo seduti sul bordo estremo del tavolo, rivolti verso S. Lei li osserva, sorride, poi con un gesto rapido della mano, li scaraventa tutti giù per terra e commenta: “Sono tutti morti!”. Colgo un improvviso nesso tra questa affermazione e il mio profondo senso di sonno di poco prima: una casa senza vita, in cui ogni membro della famiglia è morto e perfino io sono addormentata. Ogni tentativo di introdurre la vita viene liquidato: c’è silenzio, assenza, morte. Rimangono i segni di una vita passata (come nel disegno: il fuoco ancora acceso, i fiori sul tavolo, i letti e la culla, il tavolo ancora apparecchiato) ma è tutto in uno stato di stand-bay, di immobilità, come un fermo immagine inquietante. Questa l’immagine di casa che S. ha dentro di sé. “Non mi ricordo più com’è la casa” aveva detto: non ricordo più com’è una casa con delle persone in carne ed ossa, con delle persone vive, con degli affetti, con delle parole. Vengo colta da una profonda tristezza.
A più di un anno di psicoterapia, Sandra può iniziare a simboleggiare la casa come un luogo protetto e protettivo che permette di guardare a quello che è successo e a quello che succederà. E’ implicito qui il riferimento transferale alla terapia e alla relazione terapeutica che, con il tempo, ha permesso di esplorare l’inesplorabile, di avvicinare l’irraggiungibile, di pensare ciò che non poteva essere confessato nemmeno a se stessa; la terapia è diventata per Sandra il ponte percorribile tra passato e futuro, la via di transito verso la crescita.
“Oggi vorrei costruire qualcosa con i fogli” dice. Ci pensa su per un attimo, poi un’idea le fa luccicare gli occhi “voglio fare una casa…una casa mia e tua…e dentro ci mettiamo come ci sentiamo: felici, tristi, arrabbiati”. S. vuole costruire con fogli e cartoncini una casa in cui riporre e conservare dei bigliettini con su scritte “le nostre emozioni”. Ci mettiamo al lavoro … Sento quanto S. abbia bisogno, in questa fase della relazione, di affidare le proprie emozioni a qualcuno che possa accoglierle, custodirle e preservarle dalle intemperie esterne … S. velocemente strappa un pezzettino da un foglio bianco e vi scrive “Sono felice ma triste” firmato S. e, dopo averlo ripiegato più volte su se stesso, lo ripone all’interno della casa.
E’ solo attraverso questi rinvenimenti preziosi dentro di sé che S., a partire dalla ricerca di Sé e delle proprie origini, può iniziare a progredire verso il futuro. Come ci dice Gutton “l’avvenire è un passato ricomposto” e trovare la forza di guardarsi dentro e non esserne più così tanto atterriti, permette di riappropriarsi, a piccole dosi, del proprio mondo interno, delle proprie emozioni, delle proprie fantasie, del proprio corpo.
La brusca interruzione della psicoterapia e l’angosciante sensazione di scivolare all’indietro.
La storia di S. è scandita da accadimenti che sembrano, in un certo qual modo, piovere sulla sua testa, senza che le venga data la facoltà e il tempo necessario per percepire se stessa come protagonista attiva delle proprie sorti o ancora senza che le si offra la possibilità di entrare in contatto emotivo graduale con fatti ed eventi dalla difficile elaborazione. È sconvolgente osservare e rilevare, come terapeuta, un contesto ambientale, istituzionale e non, che ruota intorno alla minore, e che troppo spesso non funge da schermo protettivo ma lascia che ripetute effrazioni a tale protezione possano riattivare vissuti traumatici reiterandoli senza sosta.
Più volte, durante il nostro viaggio, io e Sandra ci siamo ritrovate di fronte ad eventi improvvisi, momenti in cui l’ambiente circostante, fuori dalla nostra stanza d’analisi, sembrava risucchiarci all’indietro, verso e dentro il vortice della ripetizione del trauma che tutto annulla, tutto spazza via.
Questo è quello che è accaduto anche quando ci è giunta la notizia che una nuova coppia era stata designata come idonea per l’affidamento di Sandra.
Inevitabilmente, numerosi dubbi ed interrogativi accompagnano questo momento della storia personale di Sandra: come può vivere Sandra l’inserimento in un’ulteriore famiglia se le sue esperienze precedenti sono state negative e fallimentari? Come può Sandra investire su nuovi oggetti se è occupata a difendersi dal dolore dei precedenti oggetti introiettati abbandonaci e persecutori?
Su tutto questo Sandra riuscirà a dire con un filo di voce: “Ho paura!”. Per un lungo tempo abbiamo parlato e pensato insieme riguardo al momento in cui io avrei incontrato la coppia … finché il giorno tanto atteso è arrivato.
Le dico “Questa mattina ho ricevuto la telefonata che stavamo aspettando” … Dopo una lunga pausa, chiede: “Cosa gli dirai di me?” e io “Cosa vorresti che dicessi loro?”. S. continua “La verità!”. Intanto va a sdraiarsi sul divanetto; “La verità” ripete. Chiedo “E qual è la verità di S.?”. Lei si fa pensierosa ma rimane in silenzio. Le vado in aiuto “Potrei dire loro che S. è una ragazza in gamba che però ha sofferto molto nella propria vita…” e lei “Si…così devi dire e devi dire pure delle altre famiglie”.
La verità di Sandra è la verità dei suoi bisogni e dei suoi desideri, ma è anche la verità dei fallimenti, delle deprivazioni, degli abbandoni; è la verità assordante di quel buco delle origini, ma è anche la speranza “di trovare una maniera di esistere come se stesso”.
Da questo momento in poi le cose precipitano, sembra che il tempo subisca un’accelerazione, a dispetto del nostro bisogno di “avere più tempo” per metabolizzare quanto sta accadendo. Io stessa vengo contaminata da segreti, non-detti, e poi notizie frammentate, ambigue, frettolose che sembrano interporsi sempre più tra me e Sandra. Tante cose succedono nelle sedute fino all’interruzione estiva: a volte Sandra riesce a portare i suoi pensieri e le sue considerazioni sull’ipotesi della famiglia, altre volte è la sua rabbia ad esplodere, altre ancora Sandra si chiude in un ritiro impenetrabile.
L’ultima seduta prima della pausa estiva, è particolarmente incentrata sul tema della separazione e dei cambiamenti. Mesi addietro, Sandra aveva realizzato un calendario personalizzato in cui, immancabilmente, depennava la casella corrispondente ad ogni seduta in corso; le piaceva tanto scorrere le pagine prima all’indietro e poi in avanti per misurare il tempo che avevamo già trascorso insieme e quello che ancora ci aspettava da trascorrere. In quest’ultimo incontro, in uno scatto di rabbia non traducibile in parole, Sandra violentemente cancella tutte le caselle restanti. Anche io avverto una profonda angoscia: vivo forse questa separazione più come una interruzione definitiva che come una pausa e questo, infondo, temo.
Vengo a sapere che Sandra partirà per le vacanze estive con la nuova famiglia. La ripresa della terapia è prevista per settembre.
Non rivedrò Sandra nel mese di settembre, ma dopo grande e sofferta attesa, ci verrà concesso un solo incontro nel mese di ottobre … sarà l’ultima volta che vedrò Sandra.
Conclusioni.
Il tratto di viaggio compiuto insieme è servito come tempo e spazio utile, ma credo insufficiente, per il completo svelamento, contatto ed elaborazione di quella complessità di contenuti psichici così inestricabilmente aggrovigliati.
Il lungo e faticoso lavoro che ci ha viste coinvolte nella instaurazione della relazione terapeutica, ha permesso l’emersione di minimi frammenti di quel mondo interno così profondamente devastato dal passato e così faticosamente reso accessibile a sé e alla terapeuta; tuttavia quello che resta è un profondo senso di impotenza di fronte alla forza travolgente e coattiva del trauma. Il timore sta nel rischio della riapertura improvvisa di una voragine non ancora ricomposta, di un buco dagli orli non ancora ricuciti, di una ferita dai lembi non ancora cicatrizzati. Quello che rimane è forse, come Sandra tante volte aveva cercato di farmi provare, la sensazione di restare vittime prigioniere e impreparate di un perpetuarsi indefinibile, interminabile, insostenibile di una esperienza traumatica senza fine.
La psicoterapia è un’esperienza di condivisione emozionale che dà accesso ad uno spazio potenziale in cui poter riattivare la circolazione del pensiero, che permette di rendere simbolizzabile ciò che prima era inaccessibile e che rimane attiva, attraverso un continuo lavorìo trasformativo interno, anche a conclusione di un percorso terapeutico. Questo ci lascia sperare in un graduale processo di elaborazione in fieri che, prendendo le mosse da un’esperienza psicoterapeutica come “base sicura”, possa proseguire dentro la paziente.
In conclusione, prendo a prestito un interrogativo, che è anche un augurio, di Dina Vallino: “E’ possibile trasformare la disperazione in speranza?”. Credo di poter, nonostante le preoccupazioni, asserire che l’obiettivo della terapia, cioè quello di creare un apparato per pensare, sia stato avviato: ora una “casa” c’è … sufficientemente grande per contenere e custodire le emozioni più variegare proprie e altrui, una “casa” come contenitore di vita.
… Una volta Sandra ebbe un’idea: tracciare la sagoma di un cuore, cospargere la superficie del cuore con la colla e temperarvi sopra i colori a matita; accadde che una sottile polverina multicolore si adagiò sulla colla, parte ne rimase attaccata e parte ne ricadde tutt’intorno. Quel cuore mi era apparso come la rappresentazione di uno spazio mentale in cui, particelle sparse e disordinate, trovando un pensatore, potevano trovare un ordine, un senso, prima impensabile.
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