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Pluralità e frammentazione. Alcune domande a proposito di psicoanalisi, territorio e futuro.

Riassunto.

L’autore si interroga sul concetto di pluralità applicato all’approccio psicodinamico nelle sue varie declinazioni. Il principio condiviso della pluralità, evidenzia sia delle potenzialità che degli aspetti critici rilevanti. In particolare mostra il proprio lato oscuro nella tendenza alla frammentazione, col rischio di una deriva solitaria del narcisismo individuale.  La conseguente crisi del legame sociale si evidenzia nella dialettica conflittuale, a volte aspra e soggetta a ripiegamenti regressivi, verso i simboli del passato, obsoleti ma sempre rassicuranti e seduttivi. Il bisogno di chiarezza e di concretezza (ideologia dell’evidenza) mette a dura prova l’approccio psicodinamico fondato sulla “domanda infinita”. L’analisi di un “sogno di gruppo” sembra esprimere con efficacia la presenza di un dilemma che si ripropone e condiziona la dinamica di gruppo.

Abstract.

The author questions the concept of plurality applied to the psychodynamic approach in its various declinations. The shared principle of plurality shows both potentialities and relevant critical aspects. In particular, it shows its dark side in the tendency to fragmentation, with the risk of a lonely drift of individual narcissism. The consequent crisis of the social bond is evident in the conflictual dialectic, sometimes harsh and subject to regressive retreats, towards the symbols of the past, obsolete but always reassuring and seductive. The need for clarity and concreteness (ideology of evidence) puts a strain on the psychodynamic approach based on the “infinite question.” The analysis of a “group dream” seems to effectively express the presence of a dilemma that recurs and conditions the group dynamic.

Autore: Luigi Miscioscia*

* Psicologo, psicoterapeuta ad indirizzo psicodinamico, membro didatta della Società Italiana di Psicodramma Analitico (S.I.Ps.A.), consociata COIRAG, già dirigente psicologo presso la ASL BA – CSM di Corato (BA)

  

Oggi non è più pensabile una totalità che non sia potenziale, concettuale, plurima. … i libri che più amiamo nascono dal confluire e scontrarsi d’una molteplicità di metodi interpretativi, modi di pensare, stili d’espressione. Anche se il disegno generale è stato minuziosamente progettato, ciò che conta non è il suo chiudersi in una figura armoniosa, ma è la forza centrifuga che da esso sprigiona, la pluralità dei linguaggi come garanzia di una verità non parziale

pag 113 – Molteplicità – da Lezioni americane di Italo Calvino.

Thalassa nasce dalla passione per la psicoanalisi e dall’ideale di una comunità scientifica disposta ad accogliere e condividere una pluralità di esperienze riguardanti la pratica analitica nelle sue diverse declinazioni. Nelle intenzioni, il progetto associativo, propone un percorso di dialogo, opponendosi alla ben nota fenomenologia della scissione dei gruppi psicoanalitici. L’idea delle pluralità in dialogo esprime una idealità solare, gradevole e accattivante, dove l’appartenenza possa nutrirsi di altri sguardi appassionati, accomunati dalla gratitudine nei confronti di una disciplina che a molti ha sensibilmente migliorato la qualità della vita. Nei momenti più intensi (a mio parere i seminari così detti autogestiti), Thalassa ha toccato questo stato di grazia, nella ricchezza del materiale proposto e nei suoi numerosi e fecondi rimandi. La pluralità che funziona, trasmette a tutti una sensazione di ricchezza, di tolleranza, di appartenenza ad una comunità empatica e civile.

L’altra faccia della pluralità, sta invece nella frammentazione.

Scrive Antonino Ferro (2006):

“Ma questa non è analisi” è una frase che si sente molto spesso nei corridoi dei centri di psicoanalisi e nei congressi in tutto il mondo. Recentemente David Turckett, durante la propria presidenza della Federazione Europea di Psicoanalisi, ha proposto di rinunciare ad affermazioni “assertive” di questo genere per procedere a sempre maggiori confronti clinici tra colleghi con modelli diversi. Ma c’è voluto molto cammino, molta sofferenza e molte scomuniche prima che si potesse arrivare all’idea di confronti paritari tra chi ha “teorie” molto diverse alle spalle”.

La pluralità è dinamicamente centrifuga e quindi disperde il desiderio in aree d’interesse in perpetua espansione. Essa è strutturalmente soggetta alla frammentazione che ne rappresenta l’altra faccia della medaglia, per così dire il lato oscuro. A questa dinamica specifica occorre aggiungere altri due fattori: 1) la contestualità culturale post moderna che vede l’oscuramento del faro sostituito dalle lanterne. 2) l’accelerazione dei processi trasformativi che preannunciano cambiamenti paradigmatici, tutti ancora da chiarire, ma che stanno già cambiando la società, la cultura, la natura “liquida” del legame sociale. La psicoanalisi si colloca all’interno di queste trasformazioni epocali e ne vive il disagio a cominciare dalla sua stessa identità.  Questi fenomeni riattivano l’antico e mai sopito cruccio freudiano intorno alla scientificità della psicoanalisi.

Se la pluralità è gasata e stordita dalla sensazione di libertà che produce, ci si potrebbe domandare: quale è la nuova forma della castrazione? Ovvero quale sarebbe il limite all’onnipotenza che di fatto sta generando?  L’ipotesi che vi propongo è che la castrazione, già presente ma poco riconosciuta nella sua attuale declinazione, stenta a configurarsi con modalità chiare e condivisibili e si intravede nelle sfumature che il quadro culturale tende a mascherare. Per esempio, nella castrazione del bisogno di ascolto. Se, la parola del faro è sostituita dalla parola delle lanterne, ecco che il moltiplicarsi delle voci inflaziona il testo di molteplici narrazioni e infiniti rimandi, costringendo l’attenzione a farsi vaga e distratta. Scrive Vattimo (1989):

“L’esperienza della fruizione distratta che sembra l’unica possibile nella nostra condizione…l’esperienza della fruizione distratta non incontra più opere, si muove in una luce di tramonto e di declino, e anche, se si vuole, di significazioni disseminate…”  

Una fruizione sfumata e crepuscolare, tra suggestioni che catturano e subito dopo scivolano nell’oblio, senza avere il tempo di consolidarsi in proposizioni sufficientemente solidificate, chiare ed efficaci. Il discorso della pluralità è un discorso liquido (Bauman 2002), un discorso che scorre e che ha difficoltà a ritrovare le parole nuove, quelle che contano in un mare di chiacchiere.

Se la pluralità, negli ultimi decenni, ha favorito la frammentazione, ovvero una deriva narcisistica da parte di un Ego ebbro della propria libertà vera o presunta, per altri versi la necessità del legame, dell’appartenenza e dell’identità, manifestano oggi espressioni vaghe e scomposte di sofferenza. Se il percorso della libertà individuale, prende una sorta di deriva solitaria e solipsichica, costruendo narrazioni ipersoggettive, difficilmente significabili all’interno di un comune alfabeto, viene a mancare la narrazione come condivisione, come possibilità di riconoscersi nella comunità.  Di questa complessa fenomenologia, mi preme suggerire alcuni aspetti. Uno di questi è, a mio avviso, il persistere di una profonda e malcelata nostalgia che faceva del faro, il custode del sentimento di appartenenza. Questo si è dissolto, a partire da un nichilismo diffuso e dal fallimento dell’autorità dei padri, collassata nei regimi autoritari, svanita in un malcelato sentimento di perdita non elaborata, orfana di una genitorialità non più affidabile, ma affidata alla relatività del discorso contemporaneo. La solitudine inquieta, generata da una libertà illusoriamente aumentata, produce i noti contraccolpi regressivi, inconsciamente rivolti alla riesumazione del faro. Questo bisogno intimo e profondo, non più sorretto dalla narrazione dell’ideale condiviso, si rivolge regressivamente al totem nel disperato tentativo di ricomporre un sentimento di identità sociale. Dunque un legame che non riesce a progredire, finisce inevitabilmente per regredire sulle antiche immagini dell’identità condivisa: il popolo sovrano; l’ordine; la razza o, se si vuole, la psicoanalisi di razza, quella col pedigree.  Ancora una volta, la storia, non riuscendo a trovare nuove forme di condivisione, ripropone il peso dei vecchi oggetti della nostalgia, nelle recenti riproposizioni dell’uomo forte, del pugno sul tavolo, della voce grossa e quant’altro. La dinamica che si ripropone, sembra andare nelle due direzioni perfettamente incompatibili. Da una parte la libertà solitaria del narciso, dall’altra parte la nostalgia della guida sicura o, se si vuole, la nostalgia del pastore che guida le pecore con amore e indulgente disciplina. Dunque ci prepariamo a tornare pecore, dopo l’avventura vissuta da giovani liberi cerbiatti?  Come già sappiamo, come avviene sotto i nostri occhi ormai da anni, come è stato detto con preoccupazione nel convegno del 2014, quando la storia prende questa piega, lo spazio per la psicoanalisi diventa pericolosamente ristretto. Se il bisogno di rassicurazione è in cerca di certezze, di evidenze, la psicoanalisi va in affanno, restringe il proprio campo d’azione e si nasconde nelle pieghe di una prassi regolarmente negata (“la psicoanalisi non è scientifica”), regolarmente ricercata (gli stessi che l’hanno tradita, sedotti dalla sirena dell’evidenza, si ritrovano prima o poi sul lettino dello psicoanalista). La stessa psicoanalisi a volte, collude con questo bisogno e finisce col tradire la propria avventura. L’esercizio delle sue varie declinazioni, si vanifica nel discorso sull’essenza. Quale é la vera psicoanalisi e come si può distinguere da quella falsa, da quella selvaggia? Altre varianti si ritrovano nell’assoggettamento alla diagnosi, o nella dipendenza dai protocolli, come se si fosse persa, almeno in parte, la fiducia in ciò che la psicoanalisi può generare. Spesso ho osservato, nel corso delle supervisioni e dei seminari clinici, alcuni eccessi interpretativi o il tradimento della posizione analitica in favore di una preoccupazione pedagogica, prescrittiva o normativa. Come se, nella fantasia del terapeuta, contasse più il fare che l’elaborare. Ed è così che si sente dire delle 4 o 5 sedute (psicoanalisi) e delle 2 o 3, mal tollerate di una psicoterapia psicoanalitica non meglio identificata e più volte sospettata di eresia. Soffre e tende a sparire, l’area dell’incertezza, dell’interrogazione, della domanda, l’area fecondissima del non sapere, della domanda infinita di Bollas (2002). Di questo esteso malessere risente anche Thalassa e né potrebbe essere diversamente.

Il sogno di Bruna (ringrazio la Dottoressa Bruna Toma per avermi consentito di utilizzare questo prezioso materiale onirico generosamente condiviso):

Eravamo in cerchio in riunione come la volta scorsa in cui ci siamo riuniti. Discutevamo riguardo ai soliti temi: programmazione e attività da svolgere. A un certo punto per dare avvio ad una attività, veniva fuori che occorreva chiamare un personaggio, di cui non ricordo il nome, tipo un ospite, qualcuno da fuori. Io dicevo che non era un problema chiamarlo e che anzi potevo farlo proprio in quel momento. Prendevo il telefono per chiamare e venivo bacchettata da S che diceva: “ora non possiamo perdere tempo con queste cose, ci sono altre priorità”. E dopo aver detto questo, continuava a lavorare al computer nello svolgimento di queste altre cose importanti. E qui che sono colta da un profondo senso di estraneità rispetto al gruppo. Mi sento intrusa, inadeguata, un pesce fuori dall’acqua poiché mi rendo conto che, nonostante io fossi stata presente dall’inizio della riunione, non capisco e proprio non conosco quali sono gli obiettivi, quali sono le priorità che ci eravamo dati, ma peggio ancora, non so proprio cosa stiamo facendo lì in quel momento. Il senso di estraneità si trasforma in vera e propria angoscia nel momento in cui comincio a chiedermi da quanto tempo siamo li e quanto tempo ci dobbiamo rimanere. Non trovo risposte, non so se dobbiamo finire a breve o restare l’intera giornata e sono inibita nel chiedere anche questa semplice informazione. Cerco di guardare l’orologio per avere almeno un riferimento, ma anche l’orologio è coperto da qualcosa che mi impedisce di guardare l’ora. Nel frattempo Amedeo discute animatamente del fatto che, per pubblicizzare e valorizzare ciò che facciamo, dovremmo parlarne e affidarci a un “potente”. Viene fuori un certo “barone”, persona di grande potere che ha ricevuto da noi, da qualcuno in particolare, un trattamento di eccellenza consentendogli di guarire da una patologia grave e che certamente ci vorrà dunque aiutare. Amedeo si esprime così: “una persona talmente potente che gli basta un battito di ciglia per …” a questo punto viene colto da una tosse violenta che gli impedisce di continuare il discorso che pertanto, anche in questo caso, cade lì e non viene più approfondito ed anche questo intento è lasciato non concluso”. Il sogno termina qui.

Il bisogno di sicurezza è così grande e catturante, da imprimersi anche nel volto dei tanti colleghi che accolgono con grandissimo desiderio l’esperto di turno (“qualcuno da fuori”), quello che ci viene a dire cos’è la psicoanalisi e come dev’essere fatta. Ho chiamato questo fenomeno: “sindrome della bocca aperta”, una sorta di cattura ipnotica che, sottraendo l’attenzione dalla propria ricerca, dal proprio cammino esplorativo, segue il canto delle Sirene che, di volta in volta, approdano sul nostro territorio. Più volte, nei miei scritti, ho sostenuto la necessità di scoprire l’oro del sud, di prestare attenzione a ciò che facciamo, alle nuove declinazioni che, di fatto, la psicoanalisi sta prendendo sul territorio, nel confronto coi disagi esclusi dall’accesso ai piani nobili. Se, da una parte, soltanto il futuro potrà pronunciare una parola sicura sull’evoluzione della psicoanalisi, è anche vero che già da oggi, possiamo provare a coglierne i segni, le tendenze, le possibili evoluzioni.

Dobbiamo a mio avviso, restare esattamente nel sogno di Bruna, e senza sapere per quanto tempo ancora. Ma, attenzione, dobbiamo restare in quella parte del sogno dove si vive lo sconcerto. Dobbiamo invece accuratamente evitare l’arrivo del “barone” (a scanso di equivoci, intendo non di certo squalificare il pregevole contributo dei colleghi autorevoli che ci onorano della loro presenza. Desidero solo de-idealizzare quella fantasia messianica che proiettiamo su di loro). Non è facile restare in questa posizione, perché l’angoscia, la depressione, ci fanno collassare nella concretezza. Ecco, direi che la psicoanalisi muore quando la concretezza satura lo spazio dell’interrogazione, quando il sapere si cristallizza e si chiude al mistero.  Thalassa vive se sarà capace di restare in questa posizione scomoda, umile e preoccupata. Thalassa muore se, sotto il peso dell’angoscia, si aggrappa alla baronia delle certezze.

Ma in che modo possiamo utilizzare questa posizione senza subirla? Il destino che ci aspetta è quello di un’evanescenza dispersiva, la frammentazione? Oppure sarà possibile elaborare il lutto e ritrovare in senso di fiducia e partecipazione? Come, da questa scomoda ma feconda posizione, sarà possibile ritrovare un po’ di leggerezza? (Calvino 1988).

Dunque proviamo a cogliere delle tendenze, dei possibili segnali.

La prassi psicodinamica è una cosa viva e autonoma. Vive senza badare alla propria specificità, alla propria identità o purezza, vera o presunta. Essa vive e basta. Vive soprattutto nei giovani professionisti, quelli che accolgono il disagio randagio, quello non idoneo o refrattario al setting. Questo disagio lo ritroviamo nelle forme e nelle modalità più varie e articolate. L’efficacia del progetto di Thalassa, se mai un giorno maturerà e ne potremo godere, passa attraverso la possibilità di raccontare questo disagio, di poterlo alfabetizzare in un codice comprensibile e condivisibile. Questa opportunità sarà resa possibile dall’interesse dei giovani alla formazione psicodinamica, da coloro che, non usufruendo di una posizione consolidata, si misurano con una serie di nuove operatività in nuovi contesti di lavoro. Per esempio nel ruolo di home maker (Cotella 2014). Di qui la curiosità che proverò a trasmettervi. Cosa ci fa un professionista con formazione psicodinamica all’interno di una famiglia multiproblematica, magari alle prese con una genitorialità patogena e, cosa non affatto trascurabile, alle prese con la patologia delle istituzioni? Patologia istituzionale che, in mancanza di strumenti psicodinamici, come l’analisi controtransferale degli operatori, si muove attraverso protocolli, linee guida, commissioni, delibere, prescrizioni, doppie diagnosi, tutti processi di lavoro che spesso si prestano a funzionare difensivamente. Come ci si può muovere nel contesto ibrido della residenza dell’utente, in situazione di non motivazione, nelle interferenze della genitorialità, nella via tortuosa delle indicazioni e delle prescrizioni degli operatori istituzionali preoccupati di raggiungere risultati “misurabili”?  Come ci si può muovere in una istituzione per la salute mentale, tra il rischio di una diagnosi etichettante e una realtà sistematicamente resistente e difficile da decifrare? Come interfacciarsi, all’interno di setting eterogenei, spesso contaminati dalle dinamiche turbolente del campo istituzionale, martoriati dalle continue frammentazioni generate da professionalità multiple ed eterogenee? (Correale 2007)

Il mio modesto parere, è che una parte viva della psicoanalisi è proprio qui, nei luoghi della peste, nel momento in cui la sicurezza dei protocolli, collassa sotto il peso delle incertezze, delle precarietà di una disciplina tutt’ora aleatoria. Molto spesso questi sono luoghi della saturazione, luoghi dove la domanda resta concreta e non può essere elaborata, dove il sapere si pone come certezza e l’insuccesso come resistenza da parte di un’utenza “poco collaborativa”. In questi luoghi saturi di “sapere” e poveri di pensiero critico, si consuma l’avventura di coloro che attraversano le istituzioni nella continua misurazione di parametri che, come letti di Procuste, poco accolgono e, quasi regolarmente, escludono il soggetto nell’espressione autentica del Vero Sé (Winnicott 2007). Ritroviamo pellegrinaggi faticosi e piuttosto calvari dove il disagio è prigioniero delle porte girevoli, di programmi illusoriamente concordati e e gestiti in perfetta innocente incompatibilità, dove l’epilogo e pressoché sempre lo stesso: il paziente ha la testa dura e non guarisce, nonostante che l’operazione sia perfettamente riuscita. Egli non è motivato, non è puntuale, non è abbastanza giovane, i genitori boicottano, si fanno la guerra, il medico prescrive una cosa e puntualmente l’utente va in un’altra direzione. Ecco, il giovane professionista, con formazione psicodinamica, deve confrontarsi con una dimensione dove, alla chiarezzadelle diagnosi corrisponde una prassi difficilissima dove il terapeuta deve faticosamente negoziare i miglioramenti possibili, quelli consentiti dalla situazione caotica, confusa, frammentata e turbolenta (Correale 2012). Eppure, incredibilmente, qualcosa si muove, qualcosa accade, qualcuno di salva nonostante il tritacarne delle prassi molteplici e frammentate. Qualcuno sopravvive alla cura e ne esce fuori guarito. Sembra incredibile ma è così: qualcuno, nonostante tutto, ce la fa. Ho visto situazioni tossiche, contaminate, saturate da coacervi di interventi scomposti, miracolosamente ricomporsi e rinsaldarsi in una più consolidata dimensione umana.

Cos’è che funziona, nonostante tutto?

“Di che cosa ci occupiamo? Per che cosa siamo qui noi tutti? Di che cosa abbiamo intenzione di parlare? Certo potremmo dire di “psicoanalisi”, ma la parola non significa proprio niente. È un termine che viene usato se vogliamo “parlare della cosa”, ma non dice “che cosa la cosa sia”. Non possiamo sentirne l’odore, non possiamo toccarla, …”

“Più tardi spero di poter parlare della parte esclusa della psicoanalisi, oppure di quello che verrà escluso dalla stanza d’analisi domattina quando voi e l’analizzando vi incontrerete. La parte esclusa gioca un grosso ruolo e può darsi che non si sia ancora manifestata nella teoria psicoanalitica” (Bion 1985).

Criticità e fallimento della pluralità.

In quest’ultima parte del seminario, proverò a porre alcuni interrogativi sul funzionamento della pluralità. Essa tutt’ora rappresenta un sogno, un’immagine ideale, ricca di promesse. Essa invece nasconde una criticità non di poco conto. Non abbiamo un dispositivo sufficientemente collaudato, che ci consenta di governare al meglio la pluralità. Per certi versi la burocrazia ci aiuta ma, al tempo stesso, ci appesantisce. Mi chiedo in che modo la pluralità possa generare ricchezza e creatività e in che modo possa trovare dei correttivi per limitare l’effetto mortifero, ovvero il processo di frammentazione. Siamo abituati a considerare la dispersione come una degenerazione del discorso condiviso che tende a farsi divergente e a perdere quel filo di senso, quel significato che lo lega ai processi di condivisione. Per uscire da quest’ impasse, proveremo ad ipotizzare che la dispersione possa essere una nuova forma di espressione. Questo concetto può apparire paradossale, ma trova conforto nelle leggi del caos (Gleick, 1987) che configurano sorprendenti possibilità, perfettamente paradossali, alla definizione stessa del caos. Il concetto di attrattore strano svela un diverso ordine dei processi caotici che, con l’aumentare delle interazioni, vengono a configurare un diverso ordine. Il concetto di attrattore strano indica la possibilità che i processi caotici confluiscano in configurazioni coerenti. Come se nel caos ci fosse un ordine misterioso che tende a svelarsi attraverso processi specifici. Di qui l’ipotesi che i diversi oggetti passione che sembrano divergere in derive solitarie, tendano a configurare una sorta di orizzonte elaborativo dove ciascun oggetto passione esprime qualcosa di significativo verso l’altro e verso l’insieme nella sua totalità. Questo processo accade, di solito, nelle fasi storiche caratterizzate dai così detti cambiamenti paradigmatici. La specificità di questi processi sta nella diversa collocazione degli stessi oggetti che assumono un significato nuovo.

Occorre avere fiducia in quello che chiamiamo inconscio e nella modalità con cui esso opera nella gruppalità (non mi riferisco tanto all’inconscio strutturato, quello della rimozione, quello che nasconde i significati già costruiti e, appunto, rimossi, mi riferisco soprattutto all’inconscio processuale, elaborativo, come del sogno della veglia, dei processi paralleli, della alfabetizzazione. Ancora una volta la psicoanalisi ci viene incontro e, nello specifico, attraverso l’esercizio dell’attenzione fluttuante che si avvale dei diversi vertici individuali che, a loro volta, si moltiplicano coi vertici della pluralità. Il discorso del gruppo, di volta in volta, apre scenari differenti e apparentemente eterogenei. Si apre una zona misteriosa, una sorta di area transizionale diffusa dove prevale la sensazione del caos e del disordine, accanto a quella di una straordinaria potenzialità effettiva ed evocativa. Questa è la prima espressione della creatività dei processi in atto. Si muove su registri eterogenei e tendenzialmente fastidiosi: “disturba” (paradossalmente, nel disturbo, la nostra salvezza, la straordinaria capacità dell’inconscio di insistere). L’esercizio del contenimento e dell’ascolto rispettoso (Nissim Momigliano 2001), consente una sospensione del giudizio interpretativo (senza memoria e desiderio) e il predisporsi su un diverso piano di ascolto. Noteremo che qualcosa insiste e non si accontenta di spiegazioni e di comprensioni. Qualcosa insiste e ci viene voglia di mettere ordine. Se diamo fiducia a questo insistere, se attribuiamo ad esso un’intelligenza, ecco che si apre una nuova prospettiva. Infatti siamo di fronte ad un processo misterioso, una sorta di gravidanza psichica di qualcosa che non sappiamo ancora, qualcosa che non conosciamo. È in questo luogo profondo che il pensiero del gruppo elabora qualcosa. Anzi ribalterei la prospettiva, ponendo il pensiero in second’ordine rispetto agli oggetti che provano ad articolarsi con modalità autonome e originali. Voglio dire che possiamo ipotizzare che siano loro i protagonisti e che semplicemente si stiano servendo del registro umano di elaborazione – significazione per un loro possibile accesso all’esistenza. Non dico nulla di nuovo, ma se mi permettete lo dico da una diversa prospettiva che ancora una volta mette l’Io in second’ordine rispetto al ruolo dell’oggetto. 

Non solo la pluralità delle parole, sono ben altri i registri che lavorano in parallelo. Per esempio il clima emotivo, l’umore del gruppo, l’esplosione delle “cartine di tornasole” (esplosioni di rabbia da parte di alcuni membri del gruppo) ma soprattutto la riproposizione di specifiche dinamiche della gruppalità. Un esempio: abbiamo deciso tutto con chiarezza e con coerenza; all’improvviso non resta nulla di ciò che avevamo detto, il discorso prende una strada diametralmente diversa, opposta alla prima. Voglio dire che ritroviamo, accanto al registro simbolico, una quantità di altri registri pressoché automatici che operano in perfetta incompatibilità, sulla dimensione plurale non euclidea, che fa pensare ai così detti stati intrecciati e sovrapposti della teoria dei quanti (Rovelli 2020). In questa prospettiva, all’interno di questo orizzonte pluralistico che fa pensare al multiverso della fisica teorica, improvvisamente ritroviamo la pluralità nelle sue forme articolate, nelle sue espressioni tra il reale di Lacan (1995), quello inconoscibile, e la realtà, o meglio, le realtà che di volta in volta andiamo ad alfabetizzare.

Consentitemi qui una breve contaminazione, l’uso di concetti suggeriti da alcuni sviluppi della fisica teorica. Un’esplorazione solitaria che mi permetto di condividere approfittando dell’ambiente accogliente del Natale e di voi amici colleghi che avete la pazienza di ascoltarmi.  Cosa centrano gli stati intrecciati e sovrapposti della teoria dei quanti, cosa hanno a che fare con la psicoanalisi e, nello specifico, con la pluralità? La questione è molto complessa e, mi rendo conto, poco adatta a condensare un discorso che si avvia alla conclusione. Focalizzerò dunque solo alcuni aspetti. Il fatto prescelto, per esempio; l’attenzione fluttuante; il concetto di vertice; il concetto di alfabetizzazione. Accanto a questi, farò riferimento ad alcune proposte mie specifiche: il concetto di accesso all’esistenza; il concetto di soglia; alcune ipotesi sulla costruzione della così detta realtà, ovviamente da distinguere dal concetto del reale di Lacan.

Cosa avviene durante quelle fasi dove attiviamo la così detta attenzione fluttuante, in assenza di memoria e di desiderio, come suggerisce Bion? Nel momento in cui, grazie all’addestramento analitico che ci consente l’ascolto rispettoso, improvvisamente la mente vaga sulla moltitudine dei vertici possibili. Evochiamo immagini, memorie che tuttavia non si cristallizzano, altre sensazioni vaghe, spesso corporee, di diversa suggestione. Evochiamo frammenti di sedute, aspetti della nostra analisi, brani di testi, teorie, persino della musica così come suggerisce Bollas. Ecco, già a livello individuale, gli intrecci della pluralità. Questa può funzionare a condizione che il quadro percettivo si renda rarefatto, così come nel sogno della veglia e l’attenzione, appunto, si lasci trasportare con modalità multiple, confuse e vagamente spontanee. Si produce, io credo, una sorta di obliterazione dell’Io, una condizione recettiva particolare dove qualcosa può comunicare su più registri. Non siamo più protagonisti. Non lo è più nemmeno il paziente di cui ci stiamo occupando. Vorrei suggerire un’immagine un po’ inquietante: i protagonisti sono gli oggetti che competono per l’accesso all’esistenza. Lo fanno scompostamente e con modalità varie, insistendo su più registri e più vertici. Il fatto prescelto emerge non quando lo desideriamo noi, non quando lo desidera il paziente (e spesso lo fa disperatamente), ma quando i processi di alfabetizzazione giungono a compimento, ad una sorta di maturazione fetale che dia accesso e nascita ai nuovi oggetti, al significato che emerge. Il metodo, contrariamente a ciò che pensano i detrattori della psicoanalisi, è rigoroso. Semplicemente, il fatto prescelto, se non viene riconosciuto, se non viene adeguatamente percepito, semplicemente insiste. Talvolta attraverso segnali tendenzialmente silenti, a volte attraverso vere e proprie esplosioni, così come nella reazione terapeutica negativa. L’oggetto si rende protagonista ed emerge prepotentemente, servendosi del registro umano. Ci fa meno male nel momento in cui, umilmente, ci poniamo in ascolto e ne curiamo la gestazione. Se, per fare un esempio, non fuggiamo dalla sgradevolezza della nausea. È qui la potenzialità del metodo analitico, l’originalità dell’invenzione freudiana. C’è qualcosa che emerge dal silenzio, o tra le chiacchiere, qualcosa che appare fragile e che spesso viene tradita dal ricorso al pensiero forte, quello della chiarezza, dell’evidenza, quello del fare, quello della conoscenza pregressa e della presunta concretezza.  Quando la memoria (insieme al desiderio di guarire, di capire, di essere efficaci) si fa massiva, il lavoro dell’inconscio scompare, come soffocato o obliterato dagli oggetti pesanti del mondo diurno. Ma questa è solo una pausa. L’inconscio sa aspettare, lavora sotto anche quando non si vede, trova il modo per farsi sentire, per non essere ignorato troppo a lungo. Nonostante tutti gli eccessi del neopositivismo, nonostante la poca attenzione e la luce coatta (Celan 1993) che illusoriamente pretende di capire, il lavoro dell’inconscio e la psicoanalisi vicina alla peste, trovano il modo per sopravvivere e rispuntare nei tempi e nei luoghi insospettati. Uno di questi, io credo, è quello umile e distratto del nostro sud. Da questo luogo, prima o poi, sono fiducioso, uscirà qualcosa di buono: un contributo fresco e originale alla psicoanalisi in affanno, alla psicoanalisi in impasse.

Riferimenti bibliografici.

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